Can we really end AIDS? | Materiali informativi
Riportiamo il nostro intervento e alcuni materiali informativi dell’incontro “Can we really end AIDS” che abbiamo svolto a Genova sabato 2 dicembre 2017.
Slide intervento Melanie Thompson
Sintesi su situazione in Italia e Liguria
“Ringraziamo il Consolato degli Stati Uniti d’America per averci offerto questa occasione per incontrare la dott.ssa Thompson il giorno seguente la giornata mondiale contro l’AIDS, e ringraziamo il Comune di Genova per averci concesso il patrocinio. La nostra gratitudine a SISM, Ambulatorio Città Aperta e AIED per la collaborazione nella organizzazione di questa iniziativa.
Siamo il Coordinamento Liguria Rainbow, soggetto plurale che crede nella indivisibilità dei diritti in quanto elementi essenziali per la realizzazione personale. Dal 2015 organizziamo a Genova il Liguria Pride, un momento di visibilità, libertà e condivisione per tutte le persone lgbti e chiunque voglia uscire dalle gabbie degli stereotipi di genere, dei destini assegnati da altri, delle relazioni di potere tra i sessi asimmetriche e gerarchiche.
Ringrazio Rami Shakra, la prima volta che ci siamo incontrati mi colpì rivolgendoci una domanda che mai nessuna persona del mondo politico ci aveva mai posto né ci ha posto in seguito: “Cosa posso fare per voi?” Fu difficile trovare le risposte, tanto non siamo abituati a domande di questo tipo! L’evento do oggi è un esempio di collaborazione nata da quell’incontro.
Ci siamo chieste/i perché proprio noi ci stiamo occupando di sieropositività, cure e salute: quasi a confermare lo stereotipo che associa questa patologia alla comunità lgbti.
Il problema sieropositività è sempre stato associato a delle categorie di persone e non al comportamento sessuale di ognuno, e queste categorie sono state stigmatizzate, isolate e discriminate. Oggi chi si scopre sieropositivo spesso deve farsi seguire da una struttura ospedaliera fuori dal proprio comune di residenza, e sono i medici stessi a consigliarlo, specialmente se si appartiene a certe tipologie di lavoratori/trici (sanitari, forze dell’ordine,…)
Gli omosessuali nell’immaginario hanno comportamenti promiscui, per questo vi è colpevolizzazione in quanto gruppo sociale a rischio, considerato irresponsabile perché si presume che non prendano precauzioni nei rapporti. Questo immaginario è emerso ancora durante la discussione sulla legge sulle unioni civili, relativamente all’obbligo di fedeltà presente nel matrimonio etero ma ‘negato’ alle coppie omosessuali, come a rimarcare che queste siano relazioni meno serie, con minor impegno reciproco.
Le persone lgbt, a cui è stata attribuita la colpa sociale di questa malattia al tempo dei primi casi riscontrati, sono sulla scena pubblica quasi le uniche persone che promuovono un’informazione chiara e necessaria per interrompere il più possibile questa epidemia. Forse perché autorizzate o facilitate a parlarne avendo sulla pelle e nella propria storia il dolore per le perdite, i difficili percorsi di cura, la violenza dello stigma e dell’esclusione. Indipendentemente dai dati che dicono di una diffusione trasversale della infezione al di là di qualunque categoria.
Siamo qui a voler contrastare questo stereotipo, a fare informazione, a proporre domande sulle politiche di sensibilizzazione della popolazione.
In questi anni è stata diffusa la cognizione che con le nuove terapie si sopravvive alla sieropositività: sembra che questo abbia contribuito a far crescere in ognuno di noi un senso di potere soprannaturale per cui molte persone hanno comportamenti sessuali irresponsabili.
Come creare una comunicazione che riesca a far vacillare questa sensazione di incoscienza o di potere soprannaturale?
Negli anni ’80 girava lo slogan “siamo tutti sieropositivi”: serviva a contrastare lo stigma verso la comunità gay e a riportare l’attenzione sulla cura di sé, come responsabilità individuale e collettiva. Non ha funzionato molto, ma oggi che impatto potrebbe avere? Siamo in una fase in cui salute e giovinezza sono un must e la cura di sé è consumo e apparenza, mentre il concetto di salute è associato alla assenza di malattie e alla forma fisica giovanile.
Nel 1984 l’OMS definiva “buona salute” l’assenza di malattia e il benessere psicofisico: fu una conquista legata alla cultura degli anni ’70 l’affermazione del principio di promozione della salute come insieme di attività e processi che rafforzano la capacità delle persone e delle comunità di avere controllo autonomo sul proprio stato di salute, prendendo in considerazione il fatto che la vita reale è fatta di cambiamenti, di alti e di bassi, di percorsi accidentati nella esperienza sessuale e riproduttiva.
In questo percorso accidentato che è la vita, il superamento di ogni malattia ha un senso trasformativo ed evolutivo, che la persona sperimenta individualmente trovando all’esterno narrazioni collettive in grado di dare riferimenti, punti di appoggio, significati. Ma a chi si trova a convivere con la patologia occorre una rete sociale accogliente, inclusiva, che offra ancoraggi per mantenere le proprie relazioni nella sfera familiare, amicale e di lavoro. Occorre una narrazione che non costruisca paure infondate, muri, ostracismi. é necessario monitorare e trovare tutele per l’accesso al lavoro delle persone sieropositive, alle quali spesso è negata l’assunzione per l’ignoranza dei datori di lavoro sulle reali cause di contagio.
Dobbiamo fare i conti con la paura, un’emozione sana e utile strettamente legata alla nostra sopravvivenza; tuttavia, quando diventa irrazionale, essa si trasforma in paura dell’Altro/dell’Altra, primo alimento per xenofobia, omofobia e ogni discriminazione. Paura dell’altro da sé che ci interroga su chi siamo noi stessi/e.
Non possiamo evitare di fare i conti con le paure, quando il discorso sulla malattia entra a forza negli interventi di educazione sessuale, o ogni volta che si propongono i test per l’HIV – giacché non è possibile lasciare nella solitudine e nel panico chi riceve un verdetto positivo, come è criticabile associare l’educazione sessuale nelle scuole alle politiche per la prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili: associazione pericolosa tra sfera del piacere e malattia/morte, che esige professionalità e consapevolezza, se si vogliono evitare fallimenti educativi.
Quando si parla di salute e malattia vi sono tre tipi di sguardo che devono trovare accordo, tre campi che devono stare in ascolto reciproco se si vuole raggiungere l’obiettivo del benessere della società e dei delle singole che la compongono. La lingua inglese ci permette più facilmente di definire questi tre fattori, perché chiama chiaramente la malattia in tre modi diversi:
1 DESEASE, la patologia vista dall’apparato medico sanitario, che la definisce e la classifica, attraverso uno sguardo di tipo normativo che “decide” sulle traiettorie di vita degli individui;
2 ILLNESS, la malattia vista e vissuta dalla e nella comunità, nella sua dimensione sociale;
3 SICKNESS, lo sguardo soggettivo, la malattia percepita dall’individuo.
Se si accetta l’idea che la salute non è un dato oggettivo, ma che dipende dalla negoziazione tra individuo, comunità e ambiente, allora la produzione di norme sanitarie può avvenire solo attraverso il dialogo tra apparato medico, struttura sanitaria, comunità e individuo.
L’AIDS è un caso paradigmatico di questi processi, e ci sono almeno due film che lo possono spiegare più semplicemente: Dallas buyers club e 120 battiti al minuto.
Dallas buyers club Il rude operaio texano Ron, conduce una vita sregolata a base di alcool, droga e sesso; proprio a causa di un rapporto non protetto con una tossicodipendente contrae l’HIV e gli vengono dati trenta giorni di vita.Una volta che la notizia della sua sieropositività si diffonde, Ron perde presto il lavoro e tutti i suoi amici, anch’essi omofobi.
All’ospedale viene preso in cura dalla dottoressa Eve Saks, dove è in corso una sperimentazione con AZT, un potente antivirale approvato dalla FDA. A Ron viene negata la sperimentazione, così allo scopo di procurarsi altro AZT Ron viaggia fino in Messico, dove incontra il dottor Vass, radiato dall’albo dei medici a causa delle sue posizioni alternative nei confronti della medicina. Questi gli rivela che l’AZT è estremamente dannoso per l’organismo umano, poiché distrugge non solo il virus ma anche le cellule sane, e gli prescrive una cura a base di peptide T, una proteina non dannosa ma non approvata dalle case farmaceutiche.
Tre mesi dopo l’inizio della cura le condizioni di Ron sono molto migliorate e decide di importare in Texas le proteine per poi rivenderle ad altri sieropositivi, in quanto non illegali ma solo non approvate. La dottoressa Saks, intanto, si rende conto degli effetti dannosi dell’AZT ma il suo superiore le nega la sospensione della sperimentazione in quanto ciò toglierebbe all’ospedale le sovvenzioni dell’FDA. L’FDA ottiene presto un inasprimento delle norme, così che le medicine non approvate diventano anche illegali.
Gli sforzi di Ron costituiranno comunque un precedente importantissimo e ben presto ogni paziente sarà in grado di curarsi come desidera. L’uomo morirà nel 1992, ben sette anni dopo una diagnosi terminale fissata a circa un mese di vita.
120 battiti al minuto. La vicenda del film è ambientata nella Parigi dei primi anni Novanta, dove il giovane Nathan decide di unirsi agli attivisti di Act Up, associazione pronta tutto pur di rompere il silenzio generale sull’epidemia di AIDS che sta mietendo innumerevoli vittime. Anche grazie a spettacolari azioni di protesta, Act Up guadagna sempre più visibilità, mentre Nathan inizia una relazione con Sean, uno dei militanti più radicali del movimento. Scrive il regista Robin Campillo “Mi sono unito a Act Up-Paris nell’aprile del 1992. Fin dal primo incontro a cui ho partecipato, sono rimasto profondamente colpito dall’entusiasmo del gruppo, considerando che quegli anni sono stati i più duri del contagio. I gay che avevano subito inermi la malattia negli anni Ottanta, erano diventati attori chiave nella battaglia per sconfiggerla. La forza del movimento veniva dalle scintille che scoccavano tra gruppi diversi di individui che imparavano sul campo a costruire un discorso e una posizione comune al di là delle differenze. Con Philippe Mangeot, ex membro di Act Up che ha collaborato con me alla sceneggiatura, eravamo d’accordo sull’importanza di restituire innanzitutto la polifonia di voci e l’intensità delle discussioni. Oggi grazie a internet possiamo avere facilmente la sensazione di appartenere a una battaglia comune, ma questo modo di aggregarsi è difficile che prenda davvero corpo e metta radici. A quei tempi le persone dovevano unirsi fisicamente in uno spazio reale, fronteggiarsi gli uni con gli altri e confrontare le proprie idee.”
Questi sono casi emblematici in cui la percezione e la conoscenza personale della sickness dell’individuo/comunità non trovano l’ascolto né dei medici, né dell’apparato statale. L’azione sanitaria non persegue quindi l’interesse dei soggetti, ma è rivolta a dinamiche interne di potere e di commercio. Entrambi i registi ci portano ad esplorare le dinamiche complesse delle relazioni tra individui, ed il rapporto tra sickness e illness, mettendo in evidenza come la relazione tra “diversi” possa avere la forza di cambiare la vita, di far nascere alleanze e di portare alla ricerca di una cura più razionale e adeguata. In questo processo i malati non sono più l’oggetto passivo dell’azione medica ma diventano elementi politicamente attivi che interrogano la scienza e il potere sulle loro responsabilità. Le associazioni di pazienti sono spesso un motore importante della ricerca sulla salute e costituiscono un esempio virtuoso di come ogni cittadino e cittadina possa esercitare il suo diritto di pensiero e di critica in una azione politica, in una logica democratica in cui chiunque può essere in grado di esprimere un parere senza sentirsi impotente solo perché tecnicamente incompetente.
Altri esempi del potere medico che ha dovuto ricredersi per la pressione dei movimenti sociali sono: il riconoscimento da parte dell’OMS che l’omosessualità non è una patologia e l’affermazione del parto naturale dopo anni di imposizione della sedia ‘gestatoria’ (introdotta a partire dal diciottesimo secolo, da allora, la donna al momento del parto venne obbligata a rimanere sdraiata per facilitare il lavoro di chi l’assisteva. Ma la posizione supina con le gambe alzate è scomoda e innaturale ed eventualmente dovrebbe essere chiesta dalla futura mamma. In realtà, nella maggior parte dei casi, se la donna viene lasciata libera di scegliere si mette in piedi o accovacciata, posizioni che favoriscono l’impegno e la discesa del bebè nel canale del parto.)
Se abbiamo come obiettivo il benessere della comunità sociale dove viviamo e ci relazioniamo con gli altri/e, occorre costruire un percorso di formazione e sensibilizzazione che parta innanzitutto dal corpo medico, per andare incontro a tutte le persone, offrendo risorse, servizi e informazione, nel rispetto di tutti/e.
Purtroppo le recenti indagini del Censis hanno rilevato che in Italia è aumentato il rancore, sentimento di avversione profonda verso l’altro, che comporta una chiusura difensiva perché l’altro è vissuto come una minaccia. Proprio il movimento contrario richiamato dallo slogan ‘Siamo tutti sieropositivi’, che invece ci ricorda che siamo noi ad essere potenzialmente pericolosi e che quindi dobbiamo proteggere l’altro oltre che noi stesse/i.
E forse comportarci come se i sieropositivi fossimo noi, migliorerebbe la qualità della vita di tutti e tutte.