Pinkwashing e commercializzazione del Pride
In un recente incontro pubblico con le volontarie del Servizio Civile Internazionale (SCI), svolto nello spazio del Liguria Pride Village, è emerso un aspetto nuovo e critico riguardo al fenomeno di commercializzazione e istituzionalizzazione del Pride in molte città europee, anche laddove i diritti civili e la cultura egualitaria non si sono del tutto affermati.
Tante sono le multinazionali e le aziende che hanno iniziato a colorare di rainbow le vetrine, i prodotti ed i manifesti pubblicitari durante il periodo delle celebrazioni dei pride, avendo individuato le persone lgbti+ come un target ricco cui rivolgere il proprio marketing, e avendo compreso che i messaggi di inclusione e apertura verso i cambiamenti sociali producono profitti perché esiste una vasta clientela che si identifica con questo tipo di comunicazione. Pur comprendendo la diffidenza e l’avversione verso chi lucra sui diritti, ci rendiamo conto che una città, un quartiere che si tinge dei colori della bandiera arcobaleno è accogliente e fa sentire a casa le persone che si identificano in quei colori. Una opposizione integralista alle collaborazioni con aziende e commercianti diventa ostacolo alla possibilità di sentirsi cittadini a pieno titolo in spazi pubblici che altrimenti parlerebbero solo a quella eteronormativitá che tanto critichiamo.

Esistono inoltre i casi come quello serbo, in cui il Pride di Belgrado è organizzato con il supporto del governo, dove premier è Ana Brnabic, una donna apertamente lesbica. In questo caso si può parlare di pinkwashing dal momento che la Prima Ministra è stata scelta dal predecessore Vucic e ne incarna la continuità politica, orientata alla rincorsa verso l’Europa a scapito di condizioni di lavoro sempre più prive di diritti e dignità e sorda al malessere delle classi popolari. Per questo motivo Luka, volontario dello SCI, è a Genova e dichiara che non andrà al Pride di Belgrado fintanto che il significato attuale non cambierà.
Iniziano a nascere contro-pride in risposta a parate ufficiali all’insegna delle sponsorizzazioni e dei costi elevati che le hanno trasformate in spazi per élite “bianche e borghesi”. In molta parte dei movimenti femministi, lgbti+ e per il cambiamento, da tempo si parla di intersezionalità, volendo intendere che le storie personali di ognuno sono complesse e che non è solo un aspetto a definire le nostre identità: abbiamo corpi, generi, orientamento sessuale differenti. Ma anche il colore della pelle, la provenienza geografica, l’appartenenza di classe sono parti che contribuiscono a posizionarci sulla scala gerarchica dell’umanità a livelli diversi, e quindi con differenti gradi di libertà, diritti, affermazione, visibilità e autonomia. Credo religiosi, cultura, schieramento politico, status giuridico, ruolo e condizione sociale ci pongono su gradini diversi della stratificazione sociale, con gradi diversi di sfruttamento, discriminazione e potere: politiche di solidarietà ed alleanze si costruiscono sulla base di queste differenze e della consapevolezza della loro esistenza e funzione. Al giorno d’oggi non è scontato che le élite di minoranze oppresse (o anche della parte femminile della umanità) siano elementi trainanti per l’emancipazione collettiva di tutte e tutti. Ad Ana Brnabic si perdona l’essere donna e lesbica ed occupare una posizione di potere, mentre per le donne serbe delle classi popolari la vita si fa più dura, per la violenza machista e per lo sfruttamento sul posto di lavoro ed i ricatti anche sessuali che si moltiplicano in assenza di affermazione dei diritti sindacali fondamentali. Brnabic è la facciata riformista da mostrare all’Europa, mentre in casa propria la comunità lgbti+ continua a non avere diritti. Ecco perché il Pride di Belgrado è apparenza, è pinkwashing.
Se intersezionalità non vuole essere solo uno slogan, chi organizza un Pride deve tenere in considerazione le difficoltà economiche di buona parte della popolazione per potersi dire veramente inclusivo. Giovani precari, migranti e lavoratori/trici immigrate, studenti, pensionati e disoccupati, lavoratori sottopagati…. tante sono le categorie povere a cui non vogliamo sottrarre la possibilità materiale di sentirsi parte del movimento lgbti e partecipare agli eventi con la stessa gioia.
#Genovabetterthanthis