È da tempo che il clima è cambiato, anche sul piano politico e sociale, da prima di Salvini ministro e capitano.
Qualcosa è cambiato nelle coscienze della gente, anche quella a noi più vicina, ma non ne abbiamo parlato, non ne abbiamo fatto tema dell’azione politica.

Siamo invece andate e andati a rincorrere le uscite di gruppi minoritari espressamente fascisti, gridando i rischi che tutte tutti corriamo con queste formazioni sempre più presenti nelle città, nei quartieri di periferia, e ancora più sui media; abbiamo denunciato i pericoli di questo o quel tentativo legislativo che mette in discussione aborto, divorzio, diritto ad uscire da relazioni violente; abbiamo contestato il decreto sicurezza prevalentemente per gli aspetti di chiusura razzista delle frontiere e di taglio alle politiche di accoglienza. Anche solo guardando all’esperienza, la lezione è che la denuncia non produce a priori solidarietà e indignazione.
Se le nostre azioni non soddisfano le aspettative, il rischio a breve-medio termine è quello di provare incertezza verso l’impegno, considerato ormai irrilevante, e cadere nell’isolamento, lasciando ancor più spazio al conformismo e alla risposta violenta di chi non ha niente da perdere e ancor meno da condividere e mediare con gli altri.
L’allarmismo riguardo a un incombente fascismo rischia di essere privo di effetto, perché da un lato Casapound non sta occupando il parlamento, mentre dall’altro il regime c’è già e da anni nella testa di tanti: si è insinuato subdolamente e il rischio è che diventi un’abitudine. Perché la destra dei Toti e dei Bucci da subito ha inteso la democrazia come dittatura della maggioranza e non ha avuto dubbi sul mettere in chiaro chi comanda, esercitando veti, censure, dinieghi che hanno messo in crisi la logica della spartizione propria delle precedenti amministrazioni. Dallo sportello antigender al registro delle famiglie le discriminazioni sono diventate palesi e chiedono più fedeltà.
Si sta sedimentando pertanto un clima di intimidazione, percepita prima ancora che reale, che va oltre e precede gli aspetti autoritari del decreto sicurezza: è il timore di poter subire ripercussioni se si va contro chi è al potere, anche quando non c’è fondamento provato di questa relazione causa-effetto. L’autocensura ne viene di conseguenza.
E così personaggi prominent del mondo della scienza e della cultura scelgono di non firmare il manifesto politico del Pride; un centro antiviolenza deve pensare a come apparire in relazione ad altri movimenti per paura di ritorsioni da parte della Regione, che è ente finanziatore; dei dipendenti del Comune non vengono al presidio in piazza perché temono di venire identificati e perdere in scatti di carriera e voci dello stipendio; delle insegnanti devono stare attente a come parlano con i genitori perché qualcuno potrebbe andare a riferire che sono contro l’amministrazione; delle associazioni devono valutare se collaborare con il Coordinamento Liguria Rainbow perché potrebbero essere tolte loro concessioni di spazi pubblici… di episodi ce ne sono parecchi. Tante volte persone che ti dicono hai ragione ma…
Anche il caso del presidente del Municipio di Ponente, che rischia il commissariamento perché ha dato il patrocinio ad un evento “nella cornice del Liguria Pride”, si inserisce in questo scenario. Esprime la minaccia di azzittimento del dissenso, ben più subdola e pericolosa delle scaramucce con la polizia, perché coinvolge le persone che non sono attiviste radicali. Crea un tipo di paura che non finisce sui social, che non viene denunciato da nessuno. Di conseguenza non si discute delle forme di tutela, protezione, autodifesa per chi non si dà il permesso di “osare”. Perché non possiamo pretendere da tutti che diventino partigiani resistenti e pagare un prezzo per questo. È il caso di parlare di questo prezzo da pagare e di cosa possiamo fare perché non diventi un sacrificio individuale.
Parliamo di come fare sentire la nostra solidarietà a quelle e quelli che subiscono nel silenzio il clima di minaccia e intimidazione, è un ascolto necessario per poter dar voce ai tanti che ne sono vittime inconsapevoli. È ciò che sta sottotraccia nella costruzione del Pride Village, ma che deve uscire più esplicitamente. Chi apprezza il nostro impegno smetta di dare tutto per scontato, perché è cambiato il mondo.