Associazione Liguria Pride: per i diritti LGBTQ+

LE OLIMPIADI DELLA TRANSFOBIA

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Fonte img: @Sky 

L’incontro di boxe alle Olimpiadi tra Angela Carini e Imane Khelif è durato pochissimo: appena 45 secondi per la Carini, che ha abbandonato il combattimento. Le polemiche invece stanno durando molto più a lungo.

Nonostante il Comitato Olimpico Internazionale avesse stabilito che Khelif, donna intersex, poteva regolarmente disputare il torneo femminile di boxe, in Italia la stessa presidente Meloni è uscita con un post dove ha messo in discussione l’equità della gara, e la stampa, i media e i social sono esplosi in commenti fantasiosi misogini e transofobi. Già prima dell’incontro Salvini e Roccella si erano espressi contro “teoria gender e ideologia woke” a loro parere dilagati nel CIO, per tutelare il diritto delle atlete cis di poter competere ad armi pari.

Lo sport, dominio per secoli maschile cis etero, deve offrire una possibilità di partecipazione a tutte le persone ma, dalla polemica di questi giorni, diremo a tutte meno alle persone trans. Eh già: perché la vicenda di Imane Khelif, mal raccontata e politicamente distorta dalla destra di governo, sembra aver alimentato soltanto transfobia. Alla donna intersex (nata con variazioni delle caratteristiche del sesso che includono un ampio spettro di condizioni, cromosomiche, fenotipiche e ormonali) verrà concesso riconoscimento perché nata così, invece alle donne trans ogni accesso sarà precluso.

Si sta cercando di impedire alla persone trans di accedere allo sport e alle competizioni olimpiche, così come impediamo loro di autodeterminarsi in molti altri ambiti fortemente significativi della vita.

In realtà degli uomini trans sembra che all’opinione pubblica importi poco, il sottotesto è che, in fondo, siano “solo” donne e che, gareggiando con gli uomini, perderanno. La maschera patriarcale viene svelata con una doppietta di misoginia e transfobia: la negazione dell’identità e dell’autodeterminazione altrui e l’inferiorizzazione delle donne. Il problema sorge quando ci preoccupiamo di “proteggere” le donne cis in nome di una presunta disparità di performance.

È lecito chiedere a chi fa sport a livello agonistico, come nel caso di Caster Semeneya, donna intersex, di dover assumere farmaci per abbassare il suo testosterone fisiologico andando contro ogni principio di etica medica e di tutela della salute della persona? Perché invece la partecipazione olimpica di Eero Mäntyranta, campione olimpico di sci di fondo, con una rara mutazione del recettore dell’eritropoietina e conseguenti livelli di ematocrito superiori a 50, e dunque con un sostanziale vantaggio durante le gare di fondo, non venne ritenuta ingiusta in termini di competitività?

Cosa definisce l’atleta? Solo il sesso assegnato alla nascita? O quello sino alla pubertà arbitrariamente fissata ai 12 anni? I livelli di testosterone? Perché alcune caratteristiche biologiche sono un parametro discriminante là dove altre (l’altezza, la struttura fisica) non lo sono? Perché l’emoglobina, che da recenti studi (Johanna Harper) sembra essere uno dei maggiori fattori di competitività maschile nello sport di resistenza, non viene ritenuta un parametro fondamentale, mentre il testosterone sì? E poi quanto valgono, negli sport di squadra o nella preparazione individuale, la volontà, le possibilità economiche e di accessibilità, l’allenamento, la tecnica, una buona tradizione agonistica, il clima psicologico?

E ancora, su quali dati vengono formulate queste considerazioni? Di fatto utilizziamo i parametri di una popolazione cisgender per affermare che questa sia la condizione universale del genere umano.

Il problema è che la vita non è binaria, lo è solo l’ideologia, mentre la complessità del mondo sfugge alla semplificazione.

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